Status quo by Roberto Perotti

Status quo by Roberto Perotti

autore:Roberto Perotti [Perotti, Roberto]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788858825884
editore: Feltrinelli Editore
pubblicato: 2016-09-07T22:00:00+00:00


4.2.2 L’ippica: mai arrendersi all’evidenza (con i soldi degli altri)

Quando ero bambino, la tv era in bianco e nero, c’erano due canali, e due sport: il calcio e l’ippica. Tutti i giorni la Rai trasmetteva il resoconto delle corse dei cavalli nei vari ippodromi. Oggi l’ippica dal vivo interessa pochissimi aficionados, peraltro in continua diminuzione. C’è una ragione: non è facile entusiasmare dei ragazzi a un evento in cui dieci cavalli tirano un carretto per un minuto, quando con un tocco del telecomando possono vedere centinaia di sport spettacolari su decine di canali.

Eppure, ogni anno lo stato spende 200 milioni per sussidiare l’ippica, e per mantenere aperti trentotto ippodromi, anche se la maggior parte ha in calendario pochissime corse. Da un punto di vista sociale questo sussidio è, semplicemente, uno scandalo: questi 200 milioni sono soldi sottratti al contribuente medio per darli a una ristrettissima cerchia. Non nascondiamoci dietro un dito: l’ippica è uno sport di élite.

Le risposte che ricevevo a questa mia banale osservazione erano di tre tipi. Primo, l’ippica, come la caccia, ha una lobby politica e parlamentare sproporzionata rispetto alla sua importanza economica. Ma questa è una scusa sciocca: l’ippica è un circuito piccolissimo, se un governo volesse impuntarsi veramente perderebbe pochissimi voti.

Secondo, il solito moltiplicatore e il solito indotto, come per il cinema. Sfortunatamente, se c’è un settore ormai senza speranze è proprio l’ippica: l’unica cosa che può moltiplicare sono le perdite. Se dovessimo mantenere tutti i settori dello spettacolo in crisi, staremmo ancora sussidiando le corse delle bighe e gli spettacoli dei gladiatori. I gusti degli spettatori evolvono, bisogna prenderne atto. Non c’è nessun motivo per privilegiare questo settore rispetto ad altri in declino. Anzi. L’ippica non ha alcuna esternalità tecnologica, non è un settore ad alta intensità di impiego, e lo spettacolo che produce non ha particolari valenze culturali.

Terzo, le scommesse. Per mesi mi sono sentito dire, anche dai tecnici presumibilmente imparziali del ministero dell’Economia, che “non ci si può fare niente, sono i soldi delle scommesse ippiche che tornano all’ippica”. Il tentativo di indagare il meccanismo esatto si scontrava con una cortina di indifferenza, ignoranza e, come al solito inerzia e pigrizia. Alla fine ci sono riuscito, e non c’è niente di complicato concettualmente. Come in tutti i meccanismi di scommesse pubbliche, è lo stato a decidere quanta parte del denaro giocato va al montepremi, quanta all’erario, quanta ai concessionari, e quanta ad altri eventuali beneficiari. Non c’è alcun diritto divino dell’ippica ai proventi delle scommesse nel settore: nello stesso periodo lo stato riduceva drasticamente il montepremi dei giochi statali e delle slot machine. Quando gli inglesi scommettono se i principi Kate e William avranno un terzo figlio il prossimo anno, i proventi vanno ai bookmaker, non alla casa reale.

Certo, l’ippica impiega anche lavoratori. È proprio per questo che, invece di continuare a drogare il sistema e tenere aperti trentotto ippodromi quando c’è domanda forse per quattro, bisognerebbe cominciare a pensare a una riduzione graduale dei sussidi.

Perché questo sistema insensato, allora? Ci sono interessi economici e lobby potenti al lavoro, ovviamente.



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